Serena d’Arbela/PATRIA

Da anni l’attenzione di Daniele Segre è concentrata sulle fabbriche,sulle miniere,sull’edilizia, portando alla ribalta cinematografica in modo diretto ambienti e figure, svelando lotte collettive e vissuti individuali. Ora è la volta di Sic Fiat Italia (prodotto da I Cammelli) presentato al recente Torino Film festival e prossimamente distribuito in dvd dalla Feltrinelli Real Cinema. Il film documenta il braccio di ferro degli operai di Mirafiori con l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne e il suo referendum del gennaio 2011. Il mondo del lavoro è quasi sempre dimenticato dallo schermo, non è abbastanza romanzesco, eppure rappresenta la vita quotidiana di milioni di uomini e donne, base laboriosa della nostra società. Un infortunio sportivo, un incidente d’auto vengono enfatizzati a volte oltre misura, i funerali occupano a lungo il piccolo schermo. Un regolamento di conti fa notizia. Un muratore che muore cadendo da un’impalcatura, un operaio soffocato da esalazioni venefiche o bruciato nella fabbrica da un incendio, o un licenziato che si suicida vengono ignorati o passano in terza linea. Eppure sono tanti. Se non fosse un orientamento politico si potrebbe pensare a una rimozione, a un senso di colpa. Le vicende dei lavoratori si raffigurano sui media, come notizie statistiche, numeriche o fatti di cronaca di passaggio e non destini umani. Mentre incalzano ossessivamente in tv gli alti e bassi capricciosi delle quotazioni dei titoli e le oscillazioni delle borse si glissa sulla gravità delle perdite dei posti di lavoro per migliaia di famiglie.
Il discorso visivo di Segre va controcorrente. Parte dai cancelli di Mirafiori per sottolineare l’elemento uomo, si estende, investe la storia del mondo del lavoro e della società in Italia. L’intreccio con altri suoi spezzoni filmici tratti da Dinamite, nelle miniere sarde della Carbosulcis, da Asuba de su serbatoiu sulla Nuova Scaini di Villacidro o da Morire di lavoro nei cantieri edili, porta alla riflessione, chiarisce l’unicità di un progetto nefasto. Distruggere gradualmente i diritti delle classi lavoratrici conquistati in più di 60 anni di battaglie, a costo di sacrifici personali e discriminazioni in ogni settore produttivo.
Scandagliare i volti degli uomini è nello stile e sensibilità del regista. Sono essi i protagonisti dei fatti e del loro significato. La discussione in campo sul referendum è un dialogo vivo che esprime disperazione, speranza o protesta più di ogni reportage. Ognuno di quei testimoni uomo o donna rappresenta l’ attualità del nostro Paese e insieme la sua storia.
Perchè nessuno ha bloccato la consultazione ideata dall’amministratore delegato della Fiat? Eppure era anticostituzionale legare la vittoria dei No alla fine della produzione, anzi un ricatto vero e proprio. Chi pensando al futuro,alla disoccupazione, ai figli, non sarebbe portato a dire sì?
“Se chiude cosa fai?” è la domanda ricorrente e angosciosa. Eppure c’è chi rifiuta le nuove regole peggiorative imposte nei reparti. I diritti in atto sono una conquista della generazione precedente costata lacrime e sangue. Un lavoratore anziano ricorda “Quando sono entrato in fabbrica negli anni 50 non avevamo alcuna garanzia.I padroni potevano licenziarci quando volevano… Era complicato anche andare in gabinetto, bisognava prendere una medaglietta che spesso mancava.” Una donna si preoccupa “ Se tornassimo indietro, se non ci fosse più parità salariale? ”Altri ricordano la grande vittoria del sabato libero, frutto di vertenze e battaglie. Dell’orario di lavoro, dei 15 giorni di ferie. Nel ’69 finalmente il diritto pieno di assemblee in fabbrica. Perdere tutto questo? Dipendere in tutto dalle logiche padronali ? Eppure sentiamo una dipendente dire “Va bene anche annullare le pause, pur di continuare” .
Entrano in campo anche i pareri dei dirigenti e delegati sindacali delle varie organizzazioni intersecati con i proletari in una dialettica vivace. Si pronunciano i politici, la Confindustria. Marchionne è fiero del suo Aut Aut. Massimo D’Alema disquisisce sul possibile vantaggio degli investimenti. Susanna Camusso mette in guardia dalla prospettiva di un clima da caserma. Raffaele Bonanni privilegia il sì per vincere la concorrenza. Per Silvio Berlusconi se prevalesse il no l’ impresa farebbe bene a dislocare. Per Emma Marcegaglia il momento è buono per le deroghe. Ma gli operai di Pomigliano già perdenti convincono di più. La prova è cominciata dal loro stabilimento. Stesso gioco, stesse promesse e poi cassa integrazione. I minatori sardi dicono “Siete come noi. Noi abbiamo lottato ad oltranza.”
Da nord a sud si succedono le occupazioni di fabbriche contro i trasferimenti all’estero o la chiusura dell’ attività. La difesa ostinata delle aziende e dei macchinari da parte delle maestranze acquista un valore emblematico. Non si combatte solo per la conservazione del salario ma dello stesso patrimonio produttivo nazionale compromesso da scelte industriali di vorace profitto. Maurizio Landini segretario della Fiom invita ad approfondire il senso della crisi E’ lo stesso avvenire del Paese a rischiare il fallimento, minato da un sistema parassitario che ormai impoverisce i più e arricchisce i pochissimi. I tentativi continui di lacerare l’unità sindacale che è stata la forza principale del progresso sociale, è deleterio. I lavoratori torneranno indietro di mezzo secolo, alla totale mercé dei padroni.
Vediamo anche chi riflette sui cambiamenti della coscienza di classe. I giovani non hanno più lo spirito combattivo dei padri. E’ cambiata la mentalità.Non credono più alla lotta per i loro diritti. Si contentano di comprare, soddisfatti dell’auto e indifferenti alla tessera sindacale. Incapaci di arrabbiarsi, restano soli, ognuno con i propri problemi. L’intervento di Pietro Ingrao attribuisce questa crisi anche alla generale sconfitta della sinistra in Europa e allo spostamento dei partiti sempre più verso un fantomatico centro.
Ma la Repubblica italiana non è fondata sul lavoro ? La nostra Costituzione ha sancito questo principio distinguendosi per modernità da altre costituzioni europee. Nel 1946 s’imponevano compiti gravosi di ricostruzione in un paese distrutto dalla guerra, voluta dal fascismo. Occorreva restituire al mondo del lavoro la priorità e la dignità a cui aspiravano contadini e operai poveri e disoccupati, inascoltati dai governi dal 1861 fino alla dittatura mussoliniana. Purtroppo questo concetto nato dalle nuove aperture ideali della Resistenza è, come si vede, ancora da realizzare. Lo conferma un presente gravido di interrogativi e di conflittualità proprio nel 150° dell’unità d’ Italia.
L’attesa sul set dell’industria torinese è effervescente. Si scontrano opinioni diverse , si litiga. Ma, in fondo,tra coraggio e paura di ritorsioni, tutti vogliono la stessa cosa, difendere il loro ruolo di produttori. Il reparto di montaggio è il più battagliero. Parla un operaio. “Eravamo 500 oggi siamo 150, 350 posti in meno in 20 anni. Il ridimensionamento è stato un ‘azione continua e incessante. Nell’85- 86 la ristrutturazione della linea ha fatto diventare l’uomo un pezzo della macchina” E’ inevitabile il ricordo delle immagini esemplari di Tempi Moderni di Charlie Chaplin o di La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri. “ Poi vennero gli incentivi per liberare i posti. Ora si vogliono cambiare le condizioni lavorative. Meno libertà, pause ridotte, esautoramento della forza lavoro”
I fotogrammi emblematici della mano d’opera nei cantieri edili, senza protezione, completa la descrizione della deregulation. La storia di un morto è toccante. Faticava in nero come tanti. Veniva da lontano, dal Senegal sentiva dai capi mastri solo le parole “in fretta”. E quanto ai contributi “domani”. Niente ospedale quando cadde dal ponteggio. Spogliato,ficcato in una roulotte. Nessuno conosceva la vittima.
Contratti senza garanzie. Umiliazioni. Prendere o lasciare. I lavoratori extracomunitari di Rosarno impiegati nell’agricoltura dall’alba al tramonto con paghe irrisorie avvertono ”Ci vogliono costringere ad accettare il modello cinese!”
La narrazione procede in questo affresco sociale, documentata in modo serrato e coinvolgente, con perfetto equilibrio tra emozione visuale e parola. La didascalia finale ci informa che alla Mirafiori hanno vinto i Sì. Ma il faccia a faccia con la realtà ha già prodotto nello spettatore una chiarificazione, una spinta a reagire. A non rassegnarsi alle strategie del neocapitalismo selvaggio. Perdere una battaglia non significa perdere la guerra.